L’uscita in Italia, a opera dell’editore Salerno, del Robespierre di Jean-Clément Martin, storico di fama della Rivoluzione francese, estremamente prolifico, ma di cui in italiano non è uscito praticamente nulla fino a oggi con l’eccezione di I bianchi e i blu, una sintesi ormai di più di vent’anni fa dei suoi studi sulla Vandea, è sicura testimonianza del continuo interesse che la Rivoluzione continua a esercitare nel nostro paese, se lo si affianca ad altre operazioni editoriali come la traduzione, qualche anno fa, del Robespierre di Peter McPhee da parte del Saggiatore, e a quelle culturali come il successo della Morte di Danton di Büchner e dell’Andrea Chenier di Giordano, entrambi riportati recentemente a teatro da Mario Martone. Come aveva facilmente intuito a suo tempo Madame de Staël, di tutto l’affollato “cast” della Rivoluzione l’unico vero protagonista che i posteri avrebbero ricordato sarebbe stato proprio Robespierre, nonostante l’indiscutibile preminenza di altre figure, da Mirabeau a Danton, da Marat a Lafayette. Ciò si spiega, secondo Jean-Clement Martin, con l’operazione compiuta dai termidoriani che ne abbatterono il regime nel 1794, il cui obiettivo era quello di isolare Robespierre dal resto della dirigenza del Terrore per addossare a lui tutte le colpe, e conquistare posizioni di potere con il cambio di regime (operazione, quest’ultima, che riuscì solo a pochi di loro). L’eccezione Robespierre fu insomma il risultato di una cinica “fabbricazione del mostro”, come recita il sottotitolo del volume originale uscito in Francia nel 2016, volta a rappresentarlo come un aspirante dittatore, un ambizioso cinico e livoroso pronto a sacrificare anche i suoi amici più intimi – è il caso di Desmoulins, di cui era stato compagno di classe e padrino del figlio nato da poco – nella sua scalata al potere. Abbattuto Robespierre, la Repubblica sarebbe andata incontro a una “commozione parziale”, secondo l’espressione di Barère, senza peraltro mettere in discussione i suoi assiomi e le sue politiche; di fatto, ricorda Martin, l’effetto fu piuttosto quello di una “commozione generale”, perché il Termidoro provocò una brusca sterzata del processo rivoluzionario, imboccando la strada prima del Terrore bianco, poi della distruzione del movimento popolare nel 1795, per approdare al fragile equilibrio del Direttorio, anticamera dell’ascesa di Bonaparte, il generale il cui arrivo Robespierre aveva da sempre vaticinato, fino al suo ultimo discorso dell’8 termidoro. Robespierre fu quindi innanzitutto il rappresentante estremo di una stagione, quella che Furet avrebbe chiamato il “momento eroico” della Rivoluzione, in cui movimento popolare e accentramento del potere trovarono una temporanea concordanza d’intenti e riuscirono a soffocare la guerra civile, respingere la coalizione straniera oltre le frontiere e tamponare la crisi economica e la penuria di viveri.

Se ciò è vero – e Martin non lo nega, anzi lo dimostra pienamente nel suo libro – quel che lascia perplessi al termine della lettura è che di Robespierre, decostruita la leggenda nera che ne ha alterato fino a oggi i tratti, sembri non restare praticamente niente. Nel suo tentativo di “normalizzarne” la figura, fin dai suoi primi passi (non c’era nulla di particolare nella condizione familiare di Robespierre, che perse la madre ancora bambino, e che non vide quasi mai il padre, crescendo con le zie, né nulla di strano nella sua castità o nel suo attaccamento agli exempla del mondo classico, di cui tutti gli intellettuali dell’epoca erano imbevuti), Martin ci restituisce l’immagine di un uomo che sembra in balia degli avvenimenti, incapace di comprenderli come di guidarli, frutto delle circostanze e privo di qualsiasi orientamento politico. È certamente vero che Robespierre non era un filosofo né possedeva un sistema ideologico al quale attenersi, come si è spesso a torto sostenuto, ricordando la sua devozione a Rousseau; l’unica stella polare della sua azione era il concetto astratto di “virtù”. Ed è certamente vero che egli non era un mero ideologo, il maître à penser della Rivoluzione, ma un uomo dotato di straordinario acume politico e capacità di destreggiarsi tra gli avvenimenti anche a costo di rinunciare a qualche principio. Tutto questo Martin lo chiarisce bene nel suo libro. Ma se si guarda alle conclusioni che ne traccia, ridurre la parabola di Robespierre a “giochi politici e urgenze politiche, rivalità tra uomini e drammatiche difficoltà di uno stato in guerra”, “tradizionale alternanza di momenti di forza e momenti di debolezza che scandiscono la vita dei grandi protagonisti della storia”, il risultato è di lasciare probabilmente il lettore perplesso di fronte a un personaggio del tutto comune, passivo, ondivago. Confrontando questo quadro con la sua spettacolare ascesa nella dirigenza rivoluzionaria, l’enigma Robespierre, anziché sciogliersi, s’infittisce.

Alcune prese di posizione di Martin non posso essere condivisibili. Nella sua ricostruzione dell’insurrezione del 10 agosto 1792, che portò al rovesciamento della monarchia, Martin nega qualsiasi ruolo attivo di Robespierre. È noto che egli non prese parte all’insurrezione, come non lo fece nemmeno Danton; ma quest’ultimo ebbe un ruolo determinante nello scioglimento dell’amministrazione comunale di Parigi, sostituita con il Comune insurrezionale alle prime luci dell’alba del 10 agosto. Robespierre, invece, rimase in quelle ore tra il suo studio e il club dei Giacobini. Ma questo non vuol dire che Robespierre non giocò una parte decisiva, essendo stato tra i primi esponenti di spicco a chiedere la decadenza del re fin da luglio, ed essendo stato l’autore materiale dell’appello delle truppe federate che avevano raggiunto Parigi per la festa del 14 luglio nel quale veniva chiesta la deposizione di Luigi XVI. Egli ancora aveva palesemente chiesto ai federati di restare a Parigi per mettersi alla testa dell’insurrezione, e diverse riunioni organizzative con i capi militari di quelle truppe si tennero nel suo studio. Ancora più improbabile la tesi di Martin sul ruolo giocato da Robespierre nel colpo di stato del 31 maggio-2 giugno ’93 contro i Girondini. Nel paragrafo intitolato non a caso “Ai margini del colpo di stato”, Martin scrive che Robespierre “non fece appello all’insurrezione, e senza dubbio alcuno, del pari di Marat, non l’aveva preparata”. Difficile condividere questa affermazione se si ricorda che l’epurazione dei Girondini dalla Convenzione era stato l’obiettivo di Robespierre praticamente fin dall’insediamento della Convenzione, e assunse centralità assoluta nella sua agenda a partire dal marzo ’93, quando si convinse di una connivenza tra i Girondini e Dumouriez e della loro incapacità di guidare la nazione attraverso le sabbie mobili del conflitto con la coalizione antifrancese. Egli, certo, intendeva compiere quel passaggio non attraverso un’insurrezione, ma con una pressione popolare che spingesse la Convenzione a espellere i girondini dal suo seno, poiché restò fino all’ultimo convinto della sacralità della rappresentanza nazionale. Ma alla fine di maggio intervenne ai Giacobini in modo esplicito: “Quando tutte le leggi sono violate, quando il dispotismo è al culmine, quando si calpestano l’onestà e il pudore, allora il popolo deve insorgere. Questo momento è giunto… Invito il popolo a insorgere contro tutti i deputati corrotti della Convenzione”. Si può dire che Robespierre non fece appello all’insurrezione? Eppure egli pronunciò precisamente questo termine più di una volta, e il 31 maggio in aula chiese l’arresto dei capi girondini senza troppi giri di parole. Egli fu insomma senza ombra di dubbio il mandante del colpo di stato del 31 maggio-2 giugno.

L’errore di Martin sta nel voler attribuire a Robespierre solo ciò che porta la sua firma. Ma egli era un politico troppo accorto e astuto per non conoscere altri metodi di pressione e persuasione. In tutti i momenti chiave tra il 1792 e il 1794 Robespierre, anche quando fu in silenzio, agì per mezzo di altri. Non ebbe ruoli politici determinanti, entrò nel Comitato di salute pubblica solo nel luglio 1793 ed anche allora non fu che uno dei dodici membri di quel comitato, ma ciò non vuol dire che non fu di fatto il capo indiscusso della Repubblica per un anno, fino alla sua caduta. Diversi leader sovietici o cinesi non ebbero ruoli ufficiali ai vertici dello Stato, ma erano e sono ancora oggi considerati i veri capi politici. Robespierre ne fu l’antesignano. Non aveva bisogno di proclamarsi dittatore, perché preferiva mantenere una posizione apparentemente defilata, al punto da chiudersi in casa per intere settimane, senza per questo smettere di esercitare un ruolo determinante in tutte le decisioni. Certo, si trattò di decisioni prese quasi sempre collegialmente, un po’ perché i restanti membri del Comitato di salute pubblica lo ammiravano e lo temevano, un po’ perché ne condividevano le scelte. Ma se anche il Terrore non si riduce al solo Robespierre, né si può sostenere che esistesse un “sistema del Terrore”, affermare che egli non ebbe un ruolo attivo nei principali episodi-chiave della Rivoluzione tra il 10 agosto ’92 e 27 luglio ’94 è una palese esagerazione. Martin afferma per esempio che non ci furono rapporti di reale collaborazione tra Robespierre e Saint-Just. È vero che il loro rapporto è stato quasi sempre esagerato nell’opinione comune, e che non mancavano divergenze tra i due. Ma che Saint-Just fosse un robespierrista convinto lo dimostra, al di là di sue precise dichiarazioni (basti ricordare la lettera da lui inviata a Robespierre nel 1790, nel quale sosteneva di conoscerlo “come si conosce Dio, dai suoi miracoli”), il rodato sodalizio quando si trattò di liquidare prima gli hébertisti e poi gli indulgenti, tra il ventoso e il germinale anno II. Era Saint-Just a pronunciare per primo i discorsi nei quali denunciava l’esistenza di cospirazioni dello straniero per abbattere la Repubblica, attribuite all’una o all’altra fazione; ed era poi Robespierre a chiederne l’arresto al Comitato di salute pubblica o ai Giacobini. All’indomani dell’arresto di Danton e Desmoulins questo meccanismo funzionò in modo perfetto: Robespierre intervenne alla Convenzione per respingere la mozione Legendre che chiedeva che Danton potesse difendersi in aula, e Saint-Just completò l’operazione con la lettura del decreto d’accusa, subito approvato. Era questo meccanismo che i due avrebbero messo in atto il 9 termidoro, se i termidoriani non avessero tolto loro la parola. Robespierre l’8 aveva denunciato l’esistenza di una cospirazione, ribadita poi ai Giacobini quella sera, facendovi espellere i suoi colleghi hébertisti del Comitato di salute pubblica, Collot e Billaud. Saint-Just, l’indomani, avrebbe dovuto leggere alla Convenzione l’atto d’accusa con i loro nomi e quelli dei cosiddetti “proconsoli”, i rappresentanti in missione compromessisi con l’hébertismo e macchiatisi di crimini orrendi nella repressione della guerra civile. Quel sodalizio politico poteva conoscere delle crepe, certamente, ma l’alleanza tra i due fu solida e resistette fino al patibolo.

Jean-Clément Martin compie insomma un’opera meritoria nel restituire a Robespierre la sua giusta dimensione di uomo politico perfettamente calato nelle circostanze dei tempi, ma nel difendere la sua tesi si lascia trascinare al punto da assolvere Robespierre da quasi tutte le responsabilità che egli pure si addossò a suo tempo, e che fanno integralmente parte del suo percorso politico. Robespierre fu il teorico della “volontà unica”, che avrebbe dovuto guidare la Repubblica durante il governo rivoluzionario: la liquidazione delle fazioni, l’accentramento dell’esecutivo, il sostegno popolare, la sostituzione dell’ideologia con il principio della virtù pubblica furono i suoi obiettivi. Riuscì quasi in quel tentativo, che fu fermato il 9 termidoro. Ci sarebbe riuscito poi Bonaparte, come ricorda giustamente Martin sottolineando un rapporto di filiazione tra questi e Robespierre, nei confronti del quale Napoleone ebbe sempre parole di elogio, pur non avendolo mai conosciuto (conobbe però, com’è noto, il fratello, che ne condivise il destino). E il fascino che esercita ancora dopo oltre due secoli, ben più di quello di un Mirabeau o di un Lafayette, e quasi certamente più di un Danton, sta nel fatto di rappresentare l’estremizzazione del politico virtuoso e onesto che, nel prendere nettamente le distanze dalla corruzione dei suoi colleghi, non ha scrupoli a liquidarli fintanto che il sostegno del popolo è dalla sua parte. Il discorso populista di Robespierre è oggi più attuale che mai.

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