Chi si reca oggi a Parigi con l’obiettivo di rivivere il tumultuoso decennio della Rivoluzione francese è destinato a restare presto deluso. Oltre a pochi resti della Bastiglia, rinvenuti durante la costruzione del metrò parigino alla fine dell’Ottocento, è rimasto poco altro.

Il palazzo delle Tuileries, che ospitò Luigi XVI e Maria Antonietta dall’ottobre del 1789 al 10 agosto 1792, teatro della grande giornata insurrezionale che pose fine alla monarchia, sede poi della Convenzione, del Comitato di salute pubblica e dei Consigli del Direttorio, nonché residenza di Napoleone durante il Consolato e l’Impero, è andato distrutto nel corso dei tragici giorni della Comune di Parigi del 1871.

La Sala del Maneggio, che ospitò le riunioni della Costituente e della Legislativa, nonché le prime riunioni della Convenzione, fu demolita nel 1802.

Il convento dei Giacobini di rue Saint-Honoré, dove si tennero tutti i grandi dibattiti politici della Rivoluzione, venne demolito nel 1816. Del convento dei Cordiglieri non resta che il refettorio.

L’Hôtel-de-Ville, che fino alla drammatica notte tra il 9 e il 10 termidoro contese ai rappresentanti della Francia il ruolo di centrale operativa della Rivoluzione, è andato anch’esso distrutto nei roghi della Comune del ’71, per essere poi integralmente ricostruito negli anni successivi.

Anche la Conciergerie, sede del Tribunale rivoluzionario, è stata completamente rimaneggiata, nonostante la ricostruzione posticcia della cella che ospitò Maria Antonietta.

E si lasci ogni speranza di ritrovare le case di Danton o di Marat, distrutte nel corso dei grandi rivolgimenti urbanistici di Haussmann, mentre solo una targa ricorda quella che ospitò per tre anni Robespierre, oggi un appartamento privato.

Fin dal 1789 si è cercato di dimenticare la Rivoluzione. Gli uomini che l’avevano fatta sperarono di proclamarne la chiusura all’indomani della presa della Bastiglia, quando Luigi XVI accettò di riconoscere l’Assemblea nazionale; poi durante la Festa della Federazione del 14 luglio 1790, quando il re giurò la sua fedeltà alla nazione; ancora nel settembre 1791, quando venne proclamata la nuova costituzione, con Barnave a chiedere ai suoi colleghi di non “ricominciare la Rivoluzione” mettendo in discussione la monarchia dopo la fuga a Varennes.

I girondini sperarono di chiuderla dopo l’esecuzione del re, e vennero fatti fuori; i dantonisti volevano chiuderla nel 1794, e vennero fatti fuori; i termidoriani, ossessionati dal desiderio di terminare la Rivoluzione, diedero vita a cinque anni di complicato equilibrismo politico, per poi essere abbattuti da Napoleone. E nemmeno lui, che all’indomani del 18 brumaio proclamò «la Rivoluzione è finita», riuscì del tutto nel compito di farla dimenticare, tanto che durante i Cento Giorni, nel 1815, si dichiarò stupito dei toni rivoluzionari con cui era stato riaccolto dal popolo francese, e dovette faticare non poco per frenare uomini come Carnot che speravano di fare di Napoleone il “Robespierre a cavallo”.

Lo storico François Furet tentò un’operazione simile nel 1978, aprendo il suo saggio Penser la Révolution française con la perentoria affermazione: La Révolution est terminée. Il suo desiderio era di mettere fine alla grande mobilitazione della storiografia marxista nel corso del Novecento, che aveva riscoperto la Rivoluzione leggendola dal punto di vista di quella bolscevica, che sembrò a storici come Mathiez e Soboul la realizzazione della profezia lanciata da Babeuf fin dal 1795 di un’«ultima rivoluzione» che avrebbe completato quella francese dell’89.

Quando, nel 1988, alla vigilia del bicentenario della Rivoluzione, Furet e la sua collega Mona Ozouf diedero alle stampe il monumentale Dizionario critico della Rivoluzione francese, sembrò che la loro battaglia fosse stata vinta. Quel volume, immediatamente pubblicato in Italia, intendeva fissare in via definitiva le letture interpretative degli avvenimenti, dei protagonisti e dei risultati della Rivoluzione, oscurando completamente il faticoso impegno di Michel Vovelle – ultimo rappresentante della scuola della Sorbona – di dimostrare invece, nel suo ruolo di direttore scientifico del Bicentenario, che la Rivoluzione non era ancora finita e che c’era ancora molto altro da scoprire, da dire, da raccontare.

La storiografia non si è affatto fermata al 1989; nuovi studi continuano a essere pubblicati in tutto il mondo, nuove linee di ricerca continuano a essere esplorate da nuove generazioni di storici, nuovi convegni fissano i punti fermi del dibattito. Tuttavia, se letta dal punto di vista del non addetto ai lavori, la Rivoluzione sembra non avere più nulla da dire.

Per fare solo un esempio, lo stesso rifiuto con cui per oltre un secolo il Comune di Parigi si è opposto alla proposta di intitolare una strada della città a Robespierre (nonostante dal 1889 ne esista una dedicata a Danton), è stato ribadito in seguito a una nuova richiesta firmata dai principali storici francesi della Rivoluzione presentata nel 2016. E anzi i dibattiti degli anni passati sulla necessità di riconoscere il “genocidio vandeano” – richiesta sostenuta dai partiti della destra francese – sono indicativi del desiderio di combattere una lettura della Rivoluzione considerata troppo agiografica.

D’altro canto, se il bicentenario del 1989 è stato oggetto di grandi celebrazioni, quello della nascita della repubblica nel 1992 è passato quasi inosservato, quello degli anni 1793-74 praticamente sotto silenzio. Per non parlare poi del Direttorio.

Invece la Rivoluzione francese ha ancora molto da dire. Molto di più, per esempio, della rivoluzione russa di cui ci si appresta a celebre il primo centenario. Mentre questa, pur avendo lasciato un’impronta enorme sul Novecento, non sembra dirci oggi più niente sul mondo in cui viviamo, l’altra, a oltre duecento anni di distanza, ci indica tutta una serie di problemi irrisolti.

In questa Guida si è cercato soprattutto di evidenziare un tema sottotraccia per tutto il decennio rivoluzionario, che gli uomini di quell’epoca ci hanno lasciato in eredità: il complesso rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, tra élite e popolo, tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Lo si ritrova nelle istanze della sanculotteria, fatte proprio dal club dei Cordiglieri, dagli “Arrabbiati” e dagli hébertisti; lo si ritrova nella difficile mediazione, durante l’anno II, tra il preteso “governo rivoluzionario” e quei ceti popolari – rappresentati spesso dal Comune di Parigi – che chiedevano riforme ancora più radicali; lo si ritrova ancora sotto il Direttorio, con gli strascichi della “congiura degli Uguali” e, in Italia, con il difficile e spesso drammatico tentativo di conciliare istanze popolari e riformismo all’interno delle repubbliche giacobine (quella Cisalpina, quella Romana, soprattutto quella Napoletana).

Se gli uomini del 1789 ci sembrano lontani, è perché iniziarono la loro impresa in un mondo in larga parte ancora medioevale. Ma sotto le istituzioni barocche dell’ancien régime covava un’enorme spinta modernizzatrice, che gli Stati Generali permisero di far irrompere nel mondo. Improvvisamente, in appena dieci anni, quegli uomini si trasformarono, divennero simili a noi: si posero gli stessi nostri problemi, andavano a votare, tenevano referendum, crearono partiti, scrissero costituzioni, introdussero riforme sociali, avviarono il processo di emancipazione delle donne, dei neri, degli ebrei (le categorie che l’ancien régime relegava ai margini della società).

Uno degli obiettivi principali di questa Guida alla Rivoluzione francese è proprio quello di evidenziare la straordinaria modernità del decennio rivoluzionario. Non si tratta di cedere alla tentazione di leggere l’attualità attraverso gli occhi del 1789 (o ancor più del ’93, del ’95, del ’99), ma di comprendere perché la Rivoluzione non può essere una “materia fredda”, come voleva Furet, che auspicava fosse studiata come si studiano i re merovingi. Anche se a volte ancora legati alle forme del passato – Robespierre per esempio insisteva nel portare ogni giorno parrucche incipriate –, gli uomini della Rivoluzione ci parlano con la lingua di oggi.

Questa Guida non è naturalmente, né potrebbe esserlo, un tentativo di replicare e aggiornare il Dizionario critico di Furet e Ozouf, che pure è stato costantemente consultato nel corso della stesura; ci sono oggi validissimi e aggiornati volumi collettanei che riassumo l’evoluzione del dibattito critico sulla Rivoluzione, come The Oxford Handbook of the French Revolution curato da David Andress o A Companion to the French Revolution a cura di Peter McPhee.

Né vuole essere una nuova storia della Rivoluzione francese: quella di Albert Mathiez e di Georges Lefebvre resta ancora insuperata, nonostante risalga agli anni Trenta e Quaranta, e chi vuole accostarsi a nuove chiavi di lettura può sicuramente trarre profitto – seppur con tagli profondamente diversi – dalla consultazione della Nouvelle histoire de la Révolution française di Jean-Clément Martin, di A People’s History of the French Revolution di Eric Hazan, o di The Coming of the Terror in the French Revolution di Timothy Tackett (le ultime due si fermano tuttavia al 1794).

Questa Guida ha piuttosto l’ambizione di rappresentare una sintesi divulgativa della Rivoluzione al di là dello schematismo dei manuali scolastici e universitari o del nozionismo di Wikipedia (o di altre enciclopedie che ritengono di poterle tener testa). Un’opera che il lettore può leggere dalla prima all’ultima pagina o saltando da un capitolo all’altro, approfondendo un tema piuttosto che un altro. Un’opera, soprattutto, che vorrebbe restituire un’immagine fresca, vivida e attuale della Rivoluzione francese.

Anche se il turista di oggi non può in alcun modo, percorrendo le strade della Parigi del XXI secolo, farsi un’idea di cosa dovette essere la Festa della Federazione del 1790 o ancor di più la Festa dell’Essere supremo del 1794 al Campo di Marte, dello spettacolo macabro delle esecuzioni in piazza della Rivoluzione, all’ombra della gigantesca statua della Libertà di David, delle chiese trasformate in templi della Ragione, dei vicoli dei faubourg percorsi dalle fiumane dei sanculotti durante le grandi giornate, dei rintocchi delle campane a martello che echeggiavano per tutta la notte nei momenti più critici, può nondimeno, rileggendo i discorsi degli uomini di quell’epoca, farsi un’idea di cosa dovette essere davvero la Rivoluzione francese. Non possiamo più entrare nella grande sala che ospitò la Convenzione nazionale; ma possiamo provare, con Victor Hugo, lo stesso senso di vertigine, quando, nel suo Novantatré, descriveva la “gran vetta”: «Ecco la Convenzione. Lo sguardo diventa fisso al cospetto di tale sommità. Non mai nulla di più alto è apparso agli occhi degli uomini».

* Il testo è l’introduzione della Guida alla Rivoluzione francese.

Guida_copertina

Roberto Paura
Guida alla Rivoluzione francese
640 pagine
Odoya Edizioni
Bologna, 2016

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